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Bolle di mattone. La crisi italiana a partire dalla città. Come il mattone può distruggere un’economia, di Mario de Gaspari | Mimesis Eterotopie © | Cover

(IBIDEM) no.1 | Letture |
Bolle di mattone, bolle di valore
Recensione a Mario de Gaspari,
'Bolle di mattone. La crisi italiana
a partire dalla città. Come il mattone
può distruggere un’economia'

Simone Ombuen

L’agile e interessantissimo volumetto di Mario De Gaspari si legge con la rapidità e la soddisfazione con la quale si beve un bicchiere di acqua fresca dopo aver camminato a lungo nell’arsura estiva. La ricca e plurima formazione dell’autore (filosofo, psicologo, politico, amministratore locale, scienziato sociale, saggista) si esprime con pienezza nel testo e nello stile del fraseggio, denso e multidimensionale, mai banale, teso a trovare nel contempo l’ampiezza degli orizzonti di riferimento e la concretezza degli specifici aspetti, mai tentato da approcci contemplativi o escatologici e sempre determinato agli effetti, consapevole della scarsità del tempo, così del leggere come dello scrivere.

Eppure questa non è tanto una recensione, anche se gli apprezzamenti dell’incipit – come in una recensione positiva – invitano esplicitamente a leggere il testo. È invece una replica, che vuole sfruttare l’occasione della lettura di un testo così vicino agli interessi e al punto di vista di chi scrive, da risultare utilissimo per portare alla luce e al dibattito alcune argomentazioni di scenario nelle quali si iscrive il rapporto tra immobiliare, economia e finanza.



La tesi del testo è che
, nella finanziarizzazione dell’economia, il settore del
real estate sia giunto a svolgere una funzione di ‘creazione di valore’, per cui attraverso la determinazione delle previsioni edificatorie gli enti locali sono in grado di determinare effetti monetari, similmente al sistema creditizio (e in cooperazione con esso). La natura finanziaria della crisi economica in atto sarebbe quindi (ed è) strutturale, e i dissesti generatisi nel credito immobiliare non sono un evento ‘di settore’, ma l’espressione più evidente di un modello economico prevalentemente speculativo.


Concordo sulla conclusione, ma con un diverso rapporto di causazione fra i fenomeni, che richiede una breve spiegazione.
Con l’ingresso dell’Italia nell’Euro il sistema degli alti tassi d’interesse da debito pubblico iniziò una brusca correzione, con la riduzione del costo del servizio del debito pubblico e l’abbattimento del costo dei mutui, consentendo volumi molto maggiori di risorse impiegabili per l’acquisto degli immobili. Ciò ha prodotto un’abnorme espansione dell’immobiliare privato, oltre ogni logica di necessità d’uso e con lo scopo essenziale di trasformare la disponibilità finanziaria in beni immobili, percepiti come garanzia reale, a ‘fissare il valore’.
Il nostro sistema bancario-finanziario, connivente con certi orientamenti politici, è giunto a finanziare persino il 100% della realizzazione di immobili a destinazione produttiva che provvedimenti statali (la cosiddetta Tremonti-bis) cofinanziavano con il meccanismo del credito d’imposta. Del resto perché no, si sono detti i protagonisti del decentramento produttivo italiano, visto che le banche che si rifiutano di finanziare i piani industriali sono poi prontissime ad accettare gli immobili come ‘garanzie reali’, dando così il segnale inequivoco che le rendite siano fonti di cespiti assai più sicure e ‘bancabili’ dei profitti aziendali.

Sono stati anni difficili per gli urbanisti più consapevoli, ai quali molti attori economici e sociali, preoccupati per la rilevanza del fenomeno in corso, si rivolgevano chiedendo, a volte persino con tono angoscioso, quale perversa dinamica della rendita urbana stesse producendo tali effetti. Anni difficili perché analizzando i meccanismi interni della rendita urbana risultava assai difficile rintracciare motivazioni economiche coerenti con i fenomeni che erano in corso. Non è un caso se interpreti pur attenti e sensibili dei fenomeni economico-sociali del Paese sono giunti a parlare di ‘città infinita’: una metafora che, se ci si pensa, è logicamente opposta alla descrizione marshalliana della rendita, intesa come capacità dei beni privati di incorporare in se stessi, per prossimità o accessibilità, le qualità provenienti da beni pubblici variamente definibili. In realtà la città vera a propria, quella in grado di erogare da beni pubblici valori incorporabili per prossimità negli immobili privati, non solo non era (e non è) infinita, ma si è di fatto nell’ultimo ventennio proporzionalmente ridotta, a fronte della diffusione insediativa.

La situazione di crisi apertasi con l’esplosione delle bolle finanziario-immobiliari del 2008 e la sua rapida propagazione al sistema finanziario e dei debiti pubblici europei ha prodotto una nuova condizione che rende molto più leggibile il quadro dei fenomeni. La crisi finanziaria ha gravemente lesionato il mercato immobiliare dell’insediamento diffuso e di scarsa qualità, mentre i mercati immobiliari ancora in qualche misura funzionanti, e nei quali esiste ancora una pur modesta proporzionabilità della domanda all’offerta, sono le parti più interne dei centri urbani maggiori, oppure i territori aperti caratterizzati da rilevanti qualità ambientali e paesaggistiche (per esempio il Chiantishire); situazioni nelle quali è ancora evidente la relazione fra localizzazione dei beni immobili e dei beni pubblici e comuni, il cui valore in essi si incorpora.

Ma, ci si chiederà, allora cosa è successo? Se non era la rendita posizionale urbana a generare la diffusione insediativa, quali sono le cause di ciò che è accaduto?
Il primo e più importante elemento causante è stato, come già accennato, un eccesso di disponibilità finanziarie. Su questo punto rilevo una diversa prospettiva, rispetto alla pur brillante interpretazione di De Gaspari. Quanto alla disponibilità finanziaria, egli la imputa proprio alla creazione di beni immobili, parlando degli enti di governo del territorio come vere e proprie zecche in grado di stampare ‘moneta urbanistica’, simmetrizzando le aspettative edificatorie alle aspettative di valorizzazione dei soggetti dell’economia finanziaria. Se questa è una valida considerazione atta a comprendere le motivazioni per le quali i soggetti finanziari si sono rivolti al real estate per impiegare le risorse a loro disposizione, non è però una considerazione adatta a comprendere gli eventi macroeconomici che ne costituiscono i necessari prodromi causanti [1].
È un altro tipo di rendita, quella energetica, ad avere prodotto la crescita dei macrofenomeni finanziari a livello globale. Basta un semplice confronto per dare il senso degli ordini di grandezza in gioco: nel real estate dei primi anni 2000 in Italia, un paese pur generoso con la rendita urbana, in una media operazione immobiliare la quota che andava a remunerare gli operatori era compresa “solo” fra il doppio e il triplo del costo dei fattori produttivi ed organizzativi necessari. A confronto, il costo di estrazione del petrolio saudita, quello più puro e meno costoso da lavorare, si aggira attorno ai 2 dollari al barile. A lungo ha oscillato attorno a un decimo del prezzo di vendita, e dalla abnorme crescita dei prezzi dell’energia avutasi nel 2008 il rapporto fra costi di produzione e prezzi di vendita è giunto spesso a toccare le venti o trenta volte. È l’energia quindi ad avere il ruolo determinante di espandere le risorse finanziarie oltre ogni limite. È l’energia «ad essere considerata bene liquido e sicuro quasi come la moneta», parafrasando il testo di De Gaspari che precede la citazione di Minsky in nota 11 di pagina 44. Ed è l’accordo con le élites dei ‘paesi energetici’, nella stragrande maggioranza non democratici, ad aver sostituito l’alleanza fra capitalismo e democrazia che fu stretta negli anni ’30 e che sostenne il patto atlantico. Una storia sulla base della quale le élites industriali occidentali ancora oggi rivendicano una leadership nella determinazione del modello di sviluppo a livello globale, nella formula dell’economia sociale di mercato. Leadership che invece i ‘nani’ della finanza tendono sempre meno a riconoscergli, come ben si può ravvisare nella trasformazione delle borse delle maggiori piazze finanziarie globali da luoghi per raccogliere risparmio verso impieghi capaci di profitto industriale (quei ‘templi del capitalismo’ che vorrebbe una certa letteratura) a sale bingo per scommettitori informatizzati.
Così è più chiaro: non c’è un particolare contenuto di rendita urbana in un immobile smarrito nello sparpaglìo della dispersione insediativa. Non si tratta della nascita di una ‘città infinita’, ma del declino della città come strumento di produzione e appropriazione sociale dei beni comuni attraverso la loro incorporazione nei beni privati. Non è la produzione di valore per via immobiliare a generare dimensione finanziaria, ma la ricerca da parte di ingenti risorse finanziarie, prodottesi a partire dalle rendite (anzitutto energetiche), di impieghi reali di qualunque genere pur di ridurre il rischio della realtà di carta di ogni credito finanziario. È l’apoteosi della sostituzione dell’immobile al processo produttivo come sottostante preferito dei prodotti finanziari [2].
E pensare che c’è per il mondo chi pensa che la soluzione a ogni problema sia il quantitative easing, vale a dire una ulteriore massiccia iniezione di liquidità in un sistema finanziario impazzito, che dimostra di aver perso ogni ragionevolezza nell’allocarla.

Un secondo e altrettanto grave fenomeno è che tale eccesso di disponibilità finanziarie è rimasto privo di adeguati sistemi di orientamento verso finalità di interesse generale. Per quel che ci riguarda sarebbe servito il governo del territorio, inteso come capacità pubblica di allocazione dei surplus economici verso destinazioni corrispondenti ad interessi generali (anche nell’interesse dei privati). È invece prevalsa, anzitutto a livello culturale, una visione nella quale il mercato non aveva bisogno di governo pubblico, né la ‘creazione di valore’ alcuna relazione con la produzione e la cura dei beni pubblici.
E così oggi l’unica speranza per giustificare e rendere finanziariamente sostenibile l’enorme quantità di beni immobili senza uso reale è produrre quei beni pubblici in grado di farli divenire effettivamente produttivi, capaci di accrescerne il valore d’uso e la capacità di produrre reddito. Ma quel che oggi manca è una classe dirigente, pubblica come privata, che sia consapevole del fatto che non esiste rendita che non abbia bisogno di un reddito reale che la remuneri stabilmente. E che espandere i mezzi finanziari a prescindere dalla capacità del sistema produttivo di distribuire reddito non è la cura, ma la peggiore delle cause della malattia.
Temi usualmente lontani dal dibattito su città e territorio, e che il brillante testo di De Gaspari ha il merito di riavvicinare. E, speriamo, di poter riaccendere in un prossimo futuro.

Simone Ombuen
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi Roma Tre
E-mail: simone.ombuen@uniroma3.it

NOTE
[1] Per maggiori dettagli cfr. Ombuen S. (2013) “Rendita urbana, consumo di suolo, globalizzazione finanziaria”, in Urbanistica Informazioni n. 247, gennaio-febbraio; Inu Edizioni, Roma.
[2] Questa lettura ‘globale’ più che locale ha fra l’altro il pregio di spiegare come mai il fenomeno di sovrapproduzione immobiliare si sia manifestato più o meno dovunque: in Spagna e Italia come in Irlanda o negli USA, in Cina come in Malesia o a Dubai, o in Africa; in contesti culturali e con regole di governo urbanistico le più varie e diverse.