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Diary of a Planner by Bernardo Secchi | Planum 2002-2013

Diario 11 | La forma della città

by Bernardo Secchi

  English Version

Parlare di forma della città e del territorio sembra oggi proibito. Se ne può forse parlare per il passato, ma non come di un problema attuale. Si è subito guardati con sospetto come di chi si occupi di cose irrilevanti.
La cosa è abbastanza strana. Senza suscitare alcuno scandalo continuamente parliamo di forme letterarie e musicali, di forme sociali, giuridiche ed istituzionali, di forme di impresa e di mercato, di forme visibili ed invisibili e riconosciamo l'utilità di queste categorie. È ben vero che il termine forma, in ognuna di queste accezioni, è utilizzato in modi suscettibili di diverse interpretazioni. In un importante saggio di alcuni anni or sono Wladyslaw Tatarkiewicz sottolineava come il carattere polisemico del termine fosse messo in evidenza anche dai termini che gli vengono spesso opposti: contenuto, materia, oggetto, argomento. Per cercare di districarsi nel labirinto della polisemia Tatarkiewicz proponeva di raggruppare le diverse idee di forma in almeno cinque concetti fondamentali, ognuno dei quali declinabile secondo alcune varianti ed ognuno dei quali con una lunga e corposa storia alle spalle: storia dunque di un termine e di cinque concetti, come ovvio assai importanti anche per l'architettura e l'urbanistica.

Se sollevo la questione è perché a me sembra che la forma della città sia oggi al centro di una disputa della quale nessuno ama parlare, forse a causa dei troppi malintesi che sovrastano il termine e l'idea stessa di forma della città.
Chi osservi però, nelle esposizioni, nelle riviste, nelle scuole di architettura e soprattutto nelle città, la moltitudine di progetti di città e per la città oggi proposti ed in parte realizzati non può che provare un'imbarazzante sensazione di déjà-vu. Analizzati con cura essi appaiono, nella maggior parte dei casi e fatte salve alcune eccezioni, quantomeno come una composizione, in luoghi e situazioni differenti, di materiali già collaudati in altre esperienze. Innovazioni e rotture sono assai rare ed immediatamente assorbite, anche in paesi che non appartengono all'area occidentale, nella nuova koinè dell'architettura e dell'urbanistica contemporanee; forse più dell'architettura che dell'urbanistica e ciò riguarda la disputa cui sto facendo riferimento.
Naturalmente è difficile provare un'affermazione di questo genere, ne desidero farlo; ma anche l'affermazione opposta incontrerebbe altrettante difficoltà; per questo ho parlato di una sensazione; che se fosse condivisa potrebbe dar luogo ad alcune interessanti riflessioni. Forse l'architettura e l'urbanistica contemporanee stanno lentamente e faticosamente trovando un loro stabile universo discorsivo: una loro concentrazione tematica, un insieme omogeneo di posizioni in ordine a ciascun tema che ne definisce una positività condivisa, un vocabolario, una grammatica ed una sintassi.
Non sarebbe cosa da poco: la storia dell'architettura della città è fatta di lunghi periodi nei quali architetti ed urbanisti hanno lavorato, con piccoli slittamenti e continui perfezionamenti, improvvise condensazioni e rarefazioni, su pochi temi condivisi, affrontandoli con un medesimo vocabolario, una stessa grammatica ed una stessa sintassi. È questo ciò che ci permette di periodizzarne la storia. Con quei vocabolari, quelle grammatiche e sintassi sono stati scritti testi tra loro molto diversi, monumenti della nostra storia letteraria ed urbana che hanno affrontato i temi peculiari di ogni epoca, esaurendo, alla fine, le proprie capacità di farvi fronte e dando luogo a nuovi universi discorsivi. Non ogni giorno si può assistere alla rottura operata da un'avanguardia, soprattutto quando, come oggi, non sembra più riconoscibile una tradizione dall'oppressione della quale occorra uscire con violenza e radicalità.
L'odierna ricerca di uno stabile universo del discorso avviene però, almeno per ora, lungo due direzioni tra loro fondamentalmente opposte; opposte cioè per quanto riguarda le principali ipotesi cui fanno riferimento. E' una schematizzazione la mia; la realtà è sempre più complessa di quanto la facciano gli studiosi ed è frequente trovare punti di intersezione tra le due direzioni. Ma forse la semplificazione può aiutare ad impostare una questione, quella appunto della forma della città, che a mio modo di vedere non dovrebbe più essere rimossa.

Se dovessi dire, in modi molto sintetici, quali siano i temi più frequentati, le posizioni più largamente condivise, i vocabolari, le grammatiche e le sintassi della prima tra le due direzioni di ricerca che ho richiamato, metterei al primo posto la nuova e maggior attenzione ad alcuni aspetti del progetto di suolo: luogo concettuale ed operativo ove prende corpo il carattere topografico del progetto contemporaneo. Non tanto il suo adagiarsi sulla topografia fisica, sociale e simbolica, sulla mappa delle pratiche sociali senza farvi violenza, quanto la riscoperta o l'invenzione di una nuova topografia nella quale quelle pratiche si rappresentino.

Nella storia della città europea il progetto di suolo è sempre stato progetto aperto che attraversa le scale e mai si riduce alla sola sistemazione di alcuni spazi non edificati; progetto che di continuo elabora e rielabora vecchi e nuovi materiali urbani, che di continuo costruisce nuovi vocabolari, nuove grammatiche e sintassi attraverso le quali esprimere nuove concezioni spaziali. Tutto ciò si oppone radicalmente al progetto di suolo della città moderna ed in specie alle sue versioni più tecniche e riduttive, ma riprende semmai re-interpretandoli alcune tradizioni ed alcuni miti più antichi come alcune poche esperienze del Movimento Moderno. Immagine di una società aperta, ove sempre più si è in pubblico, l'architettura della città contemporanea lungo questa direzione sembra rifiutare recinti e barriere, rigide suddivisioni funzionali e di ruolo, immagina uno spazio fluido che attraversa lo spessore del suolo e degli edifici.
In secondo luogo, direi che ciò che connota questo primo gruppo di progetti è un'accettazione convinta del carattere frammentario della città contemporanea; il rifiuto di imporre, ideologicamente, alla città un principio d'ordine fatto di continuità, regolarità e uniformità. Figure che la modernità ha lungamente inseguito, ma che hanno trovato, nella pratica dell'interazione sociale ed entro gli stessi gruppi dominanti come nel carattere sovra-determinato di ogni processo urbano, una forte resistenza. La maggior attenzione al frammento consente anzi a questi progetti di riscrivere la storia della città europea scoprendone il perenne carattere discontinuo e frammentario. Immagine di una società connotata dalla molteplicità e dal pluralismo, il frammento non è contraddittorio alla costruzione di un coerente universo discorsivo. Le stesse regole del discorso si flettono ed assumono colorazioni differenti entro le diverse situazioni; la flessione locale della regola discorsiva è anzi uno dei principali modi per mettere in evidenza la specificità del luogo, della situazione, della costellazione di attori.
In terzo luogo, direi che questi stessi progetti sono connotati da una nuova ricchezza materica. Spesso enfatizzati i nuovi materiali, messi a punto entro esperienze estreme in altri campi, consentono un arricchimento del linguaggio urbano, sempre più dominato dalla leggerezza, dalla trasparenza e dalla sottigliezza. Immagine di modi di vita che tendono a distribuire in modi diversi da quelli tradizionali le diverse operazioni elementari entro lo spazio ed il tempo della città, l'architettura e l'urbanistica contemporanee cercano di spostare ed interpretare differentemente dal passato le divisioni tra interno ed esterno, tra chiuso ed aperto, tra privato e pubblico.
Un diverso rapporto con la materia è spesso sottolineato, quarto aspetto, da un diverso rapporto con la natura. La natura, nascosta e moralizzata dalla città moderna, costretta entro le rigide geometrie delle sue reti, dei suoi mails e boulevards od in quelle innaturali quanto fantastiche dei giardini pubblici, diviene, con le sue proprie forme, elemento ordinatore di molti progetti urbani: si fa architettura della città, le propone problemi e soluzioni, suggerisce il ricorso a materiali inusitati, costruisce legature, trame e mosaici entro i quali si collocano i diversi frammenti della città, ispira il progetto di suolo.

A questi progetti se ne accosta un altro gruppo, forse più numeroso, che insegue ipotesi altrettanto forti. Esso considera la città del 18° secolo come la più alta espressione, il punto di arrivo della cultura urbana europea ed a partire da qui cerca di scrivere una storia alternativa del 19° secolo: ciò che il 19° e, di conseguenza, il 20° secolo avrebbero potuto essere se fossero stati più "illuminati".
L'isolato, moralizzato e più o meno aperto, posto al centro della riflessione progettuale, diviene il materiale fondamentale di una composizione urbana che utilizza viali, boulevards e strade corridoio rivisitati entro una maglia urbana, una griglia che, costruendo essa stessa i propri punti catastrofici e negando ogni sovra-determinazione del processo di costruzione della città, cerca di ristabilire una gerarchia significativa degli spazi urbani; una gerarchia che consenta di riconoscervi un racconto interrotto, ma che nasconde anche la differenza ed il conflitto.
C'è evidentemente qualcosa di interessante in questa idea che considera il 19° secolo come una parentesi, un brusco arresto se non una deviazione della storia della città europea, c'è il fascino della continuità estesa a lunghi periodi, del tentativo di dare un senso alla storia, di ritrovare un'identità che affonda le proprie radici in un passato lontano; c'è l'idea dell'autonomia delle forme della città e dell'architettura, di una loro storia quasi ineluttabile che non si deve tradire, di un lavoro di perfezionamento di situazioni esistenti attraverso spostamenti minimi, piuttosto che di re-invenzione totale. Tutto ciò è anche rassicurante; il nuovo sempre ci inquieta.
Nella città europea, ad esempio, nel suo vocabolario, nella sua grammatica e sintassi, nella sua morfologia, si rappresenta l'identità di una cultura; nei temi che con quel vocabolario, quella grammatica e quella sintassi sono stati di volta in volta affrontati e nelle loro modificazioni nel tempo si rappresenta la sua storia; un'identità ed una storia autonoma rispetto i movimenti congiunturali della società, nelle quali la società si è rappresentata in modi concettuali piuttosto che come corrispondenza immediata, priva di mediazioni; un'identità ed una storia infine che ci permettono di riconoscere la stabilità temporale degli elementi fondatori di una forma urbana.
Ciò che mi appare meno convincente in questo secondo gruppo di progetti contemporanei è l'immagine sottesa della società e dei processi di costruzione della città: una società solitamente interpretata come società di massa, composta da grandi aggregati omogenei nel loro habitus, processi di costruzione della città che si ritiene di saper regolare e controllare nei dettagli e nel tempo. E' il rifiuto ad accettare le sfide che la differenza, nello spazio fisico e sociale, ci propone ciò che mi appare troppo semplice; l'attitudine "moralizzatrice" che mi preoccupa, pur se si contrappone all'anomia ed alle possibili derive compromissorie del primo gruppo di progetti.

Indipendentemente però dalle mie preoccupazioni e preferenze, mi sembra che questi due grandi gruppi di progetti urbani assumano, sulla base di ipotesi chiaramente riconoscibili almeno nelle loro versioni più alte, posizioni differenti in ordine soprattutto alla forma dalla città; che soprattutto sia nell'impegno sullo specifico terreno della forma della città che essi esprimano il proprio impegno nei confronti della società.
Ciò appare con chiarezza se facciamo riferimento non solo al significato di forma che più di frequente si trova, ridotto e banalizzato, nei dizionari: quello cioè di forma come contorno o profilo di un oggetto, di ciò che ci consente di distinguerlo da uno sfondo (Tatarkiewicz lo indicherebbe come forma C), ma anche a quelli più articolati che lo stesso Tatarkiewicz propone.

L'espandersi della città a partire dalla fine del 19° secolo nelle sue periferie ed alla fine del secolo successivo il formarsi della "città diffusa", la perdita di un chiaro e riconoscibile limite che divida la città dalla campagna, ha indotto molti urbanisti a ritenere che non si potesse più parlare di forma della città. È stata una rinuncia dolorosa; informe è divenuto aggettivo applicato alle periferie ed alla moderna metropoli nel quale in modi spesso impliciti si condensava un giudizio negativo, il non detto di una perdita che non si voleva chiaramente riconoscere.
Più proficuamente essa avrebbe dovuto invitare ad un'osservazione più attenta della città; a non volervi riconoscere a tutti i costi un contorno, un limite che si oltrepassa varcando una soglia, quanto piuttosto la composizione, secondo principi di volta in volta cangianti, di parti, di elementi, di materiali semplici o complessi: l'albertiano concerto di tutte le parti accomodate insieme. Tatarkiewicz indicherebbe questa accezione come forma A, forse quella con una più lunga storia. Per quanto ci riguarda, essa si è fortemente rappresentata nelle concezioni della città come organismo, come in quelle della città funzionale e quelle, non sempre ad esse opposte, di stampo strutturalista; con l'inevitabile attenzione alle relazioni spaziali tra i diversi materiali urbani e l'introduzione di strumenti critici classici quali proporzione, numero, regolarità ed ordine. Essa è stata all'origine di una fertile stagione di studi urbani.

Molti hanno addebitato il modesto consenso ottenuto lungo tutto il 20° secolo dalla costruzione di nuove città e di nuove parti di città o anche di nuovi materiali urbani a due ragioni tra loro opposte. Da una parte, ad una troppo scarsa attenzione al significato intrinseco di ciascun elemento o materiale entro una più vasta composizione (forma B); al senso ed al ruolo delle relazioni che tra gli stessi materiali intercorrono o, detto in altri termini, ad una troppo scarsa attenzione all'argomento che deve legittimare ogni progetto; alla narrazione che, in modi spesso impliciti, esso contiene; alla interpretazione della realtà che propone; agli scenari che costruisce, ai loro destinatari o, in termini ancora più abbreviati e riduttivi, ad una troppo scarsa attenzione al contenuto. Dall'altra, il modesto consenso ottenuto dalla città contemporanea viene attribuito alle ragioni opposte: ad un sovraccarico ideologico; ad un eccesso di attenzione per obiettivi pur importanti e comuni a parti rilevanti della società, senza porsi il problema di come raggiungere i destinatari attraverso specifiche forme espressive o senza porsi quello di come gli obiettivi perseguiti potessero esprimersi passando attraverso specifiche forme visibili. Da ciò sarebbe conseguita la riduzione di complessità dello spazio urbano che connota la città contemporanea rispetto a quella del passato; una riduzione di complessità percepita come perdita ed impoverimento.
Critiche in molti casi giustificate, in altri insensate. Siamo abituati ad abitare ed amare parti di città costruite per destinatari che ci sono oggi totalmente estranei per cultura, modi di vita, orizzonti di senso, nelle quali si è rappresentata la sovranità piuttosto che la società disciplinare; ad abitare ed amare parti di città e materiali urbani concepiti e costruiti entro la più rigorosa autoreferenzialità, con i quali successive generazioni hanno lavorato aggiungendo e togliendo, arricchendo e semplificando. È in questa constatazione, a ben guardare, che sta la forza del secondo gruppo di progetti che ho più sopra richiamato: nel costruire una distanza critica tra i diversi strati della realtà ed è questa, di converso, la possibile debolezza del primo gruppo di progetti che costantemente rischia di aderire troppo da vicino a movimenti degli immaginari collettivi che nel tempo possono rivelarsi sterili e caduchi.

In parte per superare queste difficoltà e l'imbarazzo che suscita una divisione tra forma e contenuto, l'impossibilità cioè di esprimere un contenuto se non passando attraverso una forma espressiva ed il dover riconoscere che ogni forma finisce con l'esprimere un contenuto eventualmente non voluto, si è di recente ricorso largamente ad esprimere contenuto e forma attraverso un concept, che non necessariamente, ma molto di frequente si affida ad un'espressione grafica. L'ipotesi è quella di cercare di esprimere i soli aspetti fondamentali di un'interpretazione della realtà come della sua proiezione progettuale; un'idea antica (forma D, direbbe Tatarkiewicz) che ha avuto nel tempo alterna fortuna e che dovrebbe virtuosamente consentire di prescindere dalle possibili e personali interpretazioni di una situazione, di un oggetto o di un progetto per metterne in evidenza solo ciò che ad un livello di maggior astrazione lo accomuna ad altre situazioni, solo ciò che di quella situazione, oggetto o progetto può legittimamente essere detto e ne costituisce la componente necessaria e non accidentale.
Una sfida che ha rapidamente dato luogo a due derive: da una parte il concept è divenuto strumento retorico di rimozione di possibili conflitti e problemi: tace, nella sua vaghezza ed imprecisione, nell'uso spesso metaforico dei segni e delle parole, ciò che diverrebbe materia del contendere o che è già problema che non si sa come risolvere. Alcuni dei segni che compaiono in molti concepts appaiono all'occhio esperto profondamente bugiardi perché irrealizzabili, o tali da avere, se realizzati, conseguenze profondamente diverse da quelle attese. De-formando la realtà senza chiari criteri di controllo essi promettono significati, ruoli, orizzonti di senso che non sono in grado di costruire. Dall'altra, da forma dell'intelletto che rende percepibile e comprensibile l'esperienza, passata o futura (forma E), essi divengono spesso forma soggettivamente imposta all'esperienza, che con una forte economia di mezzi espressivi di fatto rifiuta di sottoporsi alla verifica od alla falsificazione.

È strano come non si colga in questi temi, che hanno peraltro attraversato il dibattito sull'architettura della città e sulla sua storia lungo tutto il 20° secolo, il modo specifico dell'architetto e dell'urbanista di incrociare ed interpretare la società ed i suoi movimenti, i processi di interazione sociale e le politiche che tentano di dar loro coerenza e consistenza, i disegni dei gruppi dominanti, la forma e la struttura del potere come il continuo cangiare del fascio di bisogni e desideri che danno identità ai diversi gruppi sociali assumendo impegni nei loro confronti