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Diary of a Planner by Bernardo Secchi | Planum 2002-2013

Diario 01 | Inerzia

by Bernardo Secchi

 English Version

S
to lavorando con Paola Viganò in un quartier sensible, un grand ensemble costruito tra la fine degli anni '50 ed i primi anni '60, abitato ora da immigrati extra-europei, prevalentemente nordafricani: redditi bassi, famiglie numerose, tassi di disoccupazione giovanile molto elevati, conflitti interni assai forti legati alla storia di ciascun gruppo, elevato turn-over degli abitanti e violenza diffusa sulle cose e le persone. Aree come questa sono frequenti in Europa.


Il quartiere cui mi riferisco, ovviamente un quartiere di iniziativa e proprietà pubblica diviso in diverse parti di qualche migliaio di abitanti ciascuna e situato in un environment di grande qualità, è disegnato come mi veniva insegnato quando frequentavo i miei studi. Grandi spazi aperti, attrezzature collettive generosamente dimensionate ed efficienti, rete stradale, aree di sosta ed aree verdi dal disegno assai curato, edifici ben orientati, torri e barre, una plastica della città chiara e forte; l'idea che la città sia costituita da grandi aggregati sociali attraversati da domande uniformi: famiglie nucleari, due genitori e due figli, operai od impiegati, con comportamenti e consumi sostanzialmente omogenei. Il quartiere è oggi abitato, in molte sue parti, da una popolazione assai differente e laddove questa differenza è forte il disagio è anche più evidente.

È da situazioni come questa che è nata e si è consolidata, divenendo un luogo comune, una critica ingenerosa all'urbanistica del Movimento Moderno.

Il quartiere è investito oggi, almeno in modo implicito, da proposte diverse che, nei loro termini essenziali, possono essere colte nelle parole degli abitanti e dei loro rappresentanti, degli amministratori, dei vari esperti chiamati al suo capezzale e dei loro commentatori.

Ad esempio, gradualmente svuotarlo dei suoi abitanti attuali. Non ri-occupare gli appartamenti lasciati liberi, demolire se del caso gli edifici rimasti vuoti; attendere che i caratteri di una massa critica di popolazione cambino, che gli abitanti attuali divengano una sparuta minoranza: una politica di diradamento fisico e sociale quale si è spesso praticata nei centri antichi. In effetti molti abitanti del quartiere hanno alle proprie spalle l'espulsione dal centro antico della città. Un residuo della società disciplinare: separare ed allontanare, le attività ed i gruppi sociali; il grande paradigma dell'urbanistica moderna.
Oppure lavorare sull'idea di un quartiere multi-etnico; rinunciare ad una integrazione diffusa ed omogenea, rafforzare le identità alla scala del quartiere e pensare all'integrazione come insieme di relazioni tra diversi entro l'area metropolitana o la regione; lasciare, come peraltro già avviene in molte parti della città europea, che modi di vita ed attività si sviluppino coerentemente alle culture delle popolazioni che abitano il quartiere; s'infiltrino, come in un processo di percolazione, entro le geometrie del disegno originario, le pieghino e deformino incrementalmente, modificando destinazioni d'uso, aggiungendo o togliendo volumi, densificando e rendendo meno rigida la plastica ortogonale del quartiere. La città, rubo l'immagine a Richard Sennet, non è più un melting pot, ma un'insalata ove le varie componenti si mescolano mantenendo la propria identità. Una trasformazione che richiede un grande atto di fiducia, politiche che sappiano attendere e che riescano a mobilitare i diretti interessati senza porre loro scadenze, proporre temi o leaderships. Diversi esempi dimostrano che le cose sono possibili, diverse parti della città moderna sono state investite da trasformazioni simili ed è imbarazzante osservare la moltiplicazione di luoghi esotici nei quartieri ricchi della città, differenze culturali "moralizzate" divenute velocemente oggetto di nuove attenzioni consumistiche.

Oppure modificare l'immagine del quartiere inserendovi, più probabilmente accostandovi, nuove attività pulite e tecnologicamente avanzate, ospitate in edifici immersi nel verde ed in zone ben allacciate alle maggiori infrastrutture stradali. La forza retorica dell'immagine è spesso associata ad una sua capacità auto-realizzatrice, al potere di far divenire reale ciò che inizialmente è solo rappresentato. Cambiare l'immagine della città o di una sua parte è divenuto negli anni recenti e con alterni successi lo scopo di molte politiche urbane ed è solo da poco che siamo divenuti consapevoli dell'importanza degli immaginari nella costruzione ed ordinamento delle domande espresse dagli individui e dai gruppi nei confronti della città.

Un triplo insieme di trasformazioni ha investito, nella seconda metà del XX° secolo, il campo di riflessione, di ricerca e di azione dell'urbanista, un campo, per dirla con Pierre Bourdieu, aperto, vagamente delimitato e soggetto a grandi variazioni nel tempo: da una parte, le trasformazioni della società, della sua struttura e configurazione, dell'identità dei diversi gruppi ed individui, dei loro immaginari e comportamenti, dei loro desideri ed istanze; dall'altra, le trasformazioni delle tecniche che con la città ed il territorio interferiscono e che dalla pressione esercitata dalla città e dal territorio sono sospinte verso determinate direzioni piuttosto che verso altre. Questo insieme di trasformazioni si è reso manifesto nelle concrete modifiche degli assetti fisici, funzionali, estetici e simbolici della città e del territorio; nelle trasformazioni ed innovazioni relative ai loro materiali costitutivi ed ai criteri di loro composizione.

Chiunque si soffermi a considerare nel dettaglio i processi attraverso i quali queste trasformazioni si producono deve riconoscere l'impossibilità di farli completamente aderire l'uno all'altro. Processi generalmente di selezione cumulativa, attraverso i quali qualcosa viene trattenuto nel tempo e qualcosa d'altro negato, rigettato ed abbandonato, essi hanno origini e temporalità diverse. Diverso è il loro ritmo e diverse sono le inerzie cui sono soggetti. Sono queste differenze che rendono perennemente instabili e conflittuali le relazioni tra la città, la società e l'insieme di pratiche che solitamente indichiamo con il termine urbanistica; che mai ci consentono di dire che la trasformazione delle pratiche urbanistiche è esito in-mediato delle trasformazioni sociali, come non lo sono le trasformazioni della città e del territorio e viceversa; che mai ci consentono di vivere in una città perfettamente coerente alla società.

Le ragioni risiedono nel fatto che ognuno dei tre processi di trasformazione cui ho fatto riferimento coincide con il ridisegno, spesso radicale, di intere mappe di valori. Di redistribuzione di valore e capitale simbolico, estetico e posizionale, dunque monetario, le trasformazioni delle città e del territorio; di redistribuzione di valore e capitale scientifico-professionale le trasformazioni delle teorie e delle tecniche; di redistribuzione quantomeno di valori civili le trasformazioni della società, dei gruppi e degli individui che la compongono. Redistribuzioni che debbono ovviamente fare i conti con molte e diverse inerzie.
Le avanguardie della prima metà del secolo ventesimo ed i loro epigoni hanno ben colto l'urgenza di una modifica radicale del mondo figurativo del secolo precedente, di uscire dal pastiche ottocentesco attraverso una più attenta e razionale ricostruzione di relazioni spaziali nelle quali si rappresentassero rapporti tra gli individui, le tecniche e le istituzioni più aperti ed egualitari. Esse non hanno potuto, forse saputo, intravedere modifiche della società che sarebbero divenute evidenti dopo il secondo conflitto mondiale. La loro era ancora un'epistemologia spettatoriale che continuava ad enfatizzare il valore della continuità. Per trovare, nella prima metà del secolo, il sentore di quanto stava avvenendo, dell'irruzione della discontinuità, del frammento e dello sguardo in movimento, occorre rivolgersi al mondo della musica, delle arti figurative e letterarie. Le grandi realizzazioni dell'urbanistica moderna, ritardate dal conflitto mondiale e dai regimi che l'hanno prodotto, si collocano appunto nel momento di passaggio tra due società: un passaggio veloce che si è scontrato con l'inerzia, spesso sottovalutata, della città fisica e delle pratiche progettuali.

Nella storia della città europea non è certo la prima volta che l'immaginario urbano e l'orizzonte figurativo cambiano, ma le modifiche precedenti, entro strutture sociali e di potere più compatte, si sono prodotte come passaggi, sia pur radicali ed a lungo covati, da un orizzonte all'altro. Le nostre società, più aperte ed articolate, si confrontano oggi con una straordinaria moltiplicazione degli immaginari individuali e collettivi, con un'esplosione degli orizzonti figurativi di riferimento e delle proposte conseguenti. Paralizzato dalla moltitudine chi ha la responsabilità di scegliere cerca di frequente una linea intermedia, ipotesi sfumate che si adattino alla mediocrità del comune sentire.

Dobbiamo molto alle immagini che ci hanno investito negli anni recenti; esse ci hanno costretto a rivolgere alla città, in tutte le sue dimensioni, uno sguardo nuovo e più attento. Ma oggi ne possiamo cogliere anche il carattere spesso evasivo, l'incapacità di confrontarsi con i concreti problemi tecnici, economici, istituzionali e politici proposti dalla città contemporanea, ad esempio dal quartiere cui mi riferisco. Lanciate all'inseguimento di un futuro che viene vagamente descritto come dominato dall'incertezza, esse perdono il contatto con l'inerzia del mondo dei manufatti e dei comportamenti e con le loro diverse temporalità. Ciò produce anche l'idea di una loro sostanziale irrilevanza, ne induce il rapido consumo ed abbandono prima che abbiano potuto essere concretamente sperimentate.

Per affrontare i problemi proposti dalla città abbiamo invece bisogno di tutta la nostra immaginazione. Ma proprio perché la città contemporanea è e deve essere diversa da quella di un sia pur recente passato dobbiamo inserire nei varchi aperti dall'instabilità delle relazioni tra città e società pratiche progettuali che, senza eludere i problemi posti dalle differenti inerzie, cerchino di colmare il divario tra le diverse temporalità con le quali muta il manufatto, il comportamento e l'immagine.